LA STRAGE DI ADDIS ABEBA (19 – 21 febbraio 1937)

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Addis Abeba: obelisco in ricordo della strage compiuta dagli italiani

Nel 1935 -36  l’Italia ha conquistato l’Etiopia con una breve campagna militare ed un grande dispiego di mezzi militari, tra cui l’uso di gas velenosi proibiti dalle convenzioni internazionali.
È però una vittoria di Pirro. La Resistenza si diffonde a macchia d’olio e mette a dura prova gli occupanti.
Secondo Richard Pankhurst (1) la storia della guerra d’Etiopia può essere suddivisa in tre fasi (che in parte si sovrappongono):
i primi sette mesi: dall’ottobre 1935 all’occupazione italiana di Addis Abeba (5 maggio 1936) in cui si fronteggiano gli eserciti regolari italiano ed etiopico.
la fase “eroica” della Resistenza di quattro anni (dal maggio 1936 al 10 giugno 1940) in cui progressivamente annientati i resti dell’esercito imperiale che continuano a combattere, rimane in campo lo spirito indomabile degli “Arbegnuoc” (patrioti) che riesce a mettere in serie difficoltà gli invasori nonostante la disorganizzazione, la sostanziale mancanza di aiuti dall’estero e la scarsa disponibilità di armi.
La fase finale, iniziata con l’entrata dell’Italia nella II guerra mondiale (10 giugno 1940) e sostanzialmente conclusa con l’ingresso delle truppe inglesi in Addis Abeba (6 aprile 1941) in cui la Resistenza si espande approfittando delle operazioni militari inglesi e ritorna in campo anche il negus Haile Selassie che organizza un piccolo esercito in Sudan con cui penetra nel territorio etiopico.
L’attentato a Graziani (19 febbraio 1937) e la conseguente, spaventosa, rappresaglia fascista si situano nella seconda fase.
L’attentato era stato concepito da due giovani studenti di origine eritrea Abraham Debotch e Mogus Asghedom, con la complicità del tassista hararino Semeon Adefres (che li farà fuggire) e del capo ribelle Ficrè Mariam. Non pare che vi fosse una rete cospirativa più vasta.

Il contesto in cui matura l’attentato lo descrive bene Angelo Del Boca:
“Ad appena nove mesi da quando Rodolfo Graziani era stato nominato da Mussolini viceré d’Etiopia, il clima a Addis Abeba era particolarmente pesante e l’atmosfera di insicurezza era palpabile. C’erano, nella capitale, alcune migliaia di etiopici che piangevano i loro cari uccisi durante le operazioni di grande polizia coloniale. C’erano molti altri in ansia per la scomparsa dei loro congiunti,probabilmente finiti nelle carceri italiane. Continuava, inesorabile, la caccia ai cadetti della Scuola militare di Olettà e dei giovani che si erano laureati all’estero, per i quali, sin dal 3 maggio 1936, Mussolini aveva emesso questa sentenza: ‘Siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani, etiopici, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi’. Infine, dalle regioni vicine, dove era attiva la resistenza degli arbegnuoc, dei partigiani, giungevano notizie di scontri, di eccidi, di razzie, di incendi di villaggi, dell’uso sistematico dei gas” (2).

Le otto bombe a mano lanciate dagli attentatori provocano sette morti ed una cinquantina di feriti (tra cui lo stesso viceré).
Mentre gli attentatori riescono ad eclissarsi (solo Semeon Adefres verrà successivamente arrestato e torturato fino alla morte) ad Addis Abeba si scatena la rappresaglia incontrollata contro la popolazione civile organizzata in prima persona dal federale Giulio Cortese.
“tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. – scrive il giornalista Ciro Poggiali – Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in istrada. […] vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente” (3).

Vengono massacrati migliaia di indigeni innocenti (tra i 1.400 e i 6.000 secondo la stampa estera dell’epoca), incendiati interi quartieri (specialmente quelli lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign), tra tante efferatezze solo l’intervento di un colonnello dei granatieri impedisce che una cinquantina di diaconi vengano gettati nel rogo della chiesa di San Giorgio, data alle fiamme dagli squadristi). Circa 4000 etiopi vengono arrestati ed ammassati in improvvisati campi di concentramento.

L’orgia di sangue dura tre giorni (dal 19 al 21 febbraio 1937). “Per tre giorni durò il caos – ricorda l’attore Dante Galeazzi – per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano”(4).

Ma la repressione prosegue terribile nelle settimane successive. Secondo un espresso ordine di Mussolini “tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi” tanto che il governo etiopico presenterà un memorandum al Consiglio dei Ministri degli Esteri delle potenze vincitrici riunito a Londra nel settembre 1945 in cui si parla di “30.000 uccisi durante la strage del 1937” (ma il riferimento è probabilmente anche alla repressione seguente).

Graziani in un telegramma a Mussolini del 22 febbraio parla di “un migliaio di persone” passate per le armi e “quasi altrettanti tucul [le povere case etiopiche]” bruciati. Stime sicuramente molto riduttive.

Nessuno ha mai pagato per questi crimini di guerra, né per la strage di Debrà Libanòs né per quella di Zeret.

(1) intervento al convegno “L’Italia e l’Etiopia 1935 -1941. A settant’anni dall’impero fascista”, Milano, 5 -7 ottobre 2006, atti pubblicati (a cura di R. BOTTONI) da Il Mulino, 2008. (locandina del convegno)
(2) Angelo DEL BOCA, Italiani brava gente ?, Neri Pozza, 2005, p. 217; per la ricostruzione degli eventi cfr. anche Le guerre coloniali del fascismo, a cura di Angelo DEL BOCA, Laterza, 1991.
(3) Ciro POGGIALI, Diario AOI, Longanesi, 1971 p. 182, citato a p.244 de Le guerre coloniali del fascismo, a cura di Angelo DEL BOCA cit.
(4) Angelo DEL BOCA, Italiani brava gente ? Cit. p.221 ss.

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